“Una parola muore appena detta: dice qualcuno.
Io dico che solo in quel momento inizia a vivere.”Emily Dickinson
Può sembrare un paradosso ma nella danza la parola è uno strumento didattico potentissimo. Essa non ha solo una funzione meramente descrittiva, non è solamente un “codice” che permette di nominare qualcosa e di definirlo tramite una corrispondenza, è prima di tutto una vibrazione fisica che colpisce e inevitabilmente “attraversa” organicamente ciascun allievo.
Si tratta quindi prima di tutto di parola-suono. Alla stregua di una musica quindi, ogni parola, ogni frase, pronunciata durante una lezione, possiede, per così dire, una sua metrica e una sua dinamica: durata, tono, ritmo, volume incidono profondamente sulla materia dei corpi.
Forse è per questa ragione che, delle mie insegnanti di danza, ricordo principalmente la voce.
Ma non basta, c’è un altro piano. Nella pedagogia della danza infatti la parola diventa anche un dispositivo generativo in grado di risvegliare dentro ogni singolo allievo un universo di immagini e memorie che condizionano la qualità del movimento rendendolo unico e personale. Se chiedessi ad una classe di tradurre la parola Oceano in un gesto, non ne troveremmo uno uguale all’altro. L’esperimento è sempre sbalorditivo: assisteremo a una serie di movimenti diversissimi, per spazialità, ritmo, energia: oceani ironici, drammatici, intimi, spaventosi.
Anche laddove le parole sono connesse ad un’azione piuttosto precisa e magari pratica – cadere è cadere, rotolare è rotolare – sarà difficile trovare dinamiche affini, e questo perché per ognuno di noi ogni parola possiede una sua “storia” originaria e originale che si traduce in un movimento unico. Ancora più suggestivi sono i risultati che si ottengono sostituendo a Oceano parole come Mamma, Casa, Amore. Vere e proprie stratigrafie del sentimento.
In altri contesti di movimento che non riguardano la danza, siamo abituati, assuefatti, alla parola-istruzione: una sorta di ordine che cala dall’altro e chiede una risposta immediata. Piegati, Alza un piede!, Ripeti per otto volte..., ma nella danza questa facoltà germinativa del verbo, questa possibilità di creare possibili universi di senso ha un ruolo fondamentale.
Potremmo spingerci forse a dire che avere un corpo è disporre di una dimensione sensibile in grado di nominare le cose che sente? Sì, ma forse la questione va ben oltre: mi piace pensare infatti mentre insegno che la parola sia quel piccolo “cosmo” che si contrappone al “caos”, all’indeterminato, quell’agglomerato di senso in grado di modificare la nostra percezione del mondo e ri-orientarci nell’azione danzata.
Un esempio? Nominare la parola gravità, non significa solo riferirsi ad una legge fisica. “Gra-vi-tà” a lezione è prima di tutto una dinamica sonora che suggerisce ad esempio delle fasi progressive – Gra-vi-tà – ma è anche qualcosa che scende rapidamente e che alla fine precipita in modo ineluttabile tanto da meritarsi un accento sull’ultima sillaba; ma è anche un’immagine diversa per ciascuno: qualcuno la incarnerà attraverso il senso del peso, qualcun altro la farà coincidere con una qualità pulviscolare dell’aria, un terzo la tradurrà come il rumore sordo di una caduta.
Se propongo di “assecondare la gravità” il corpo scenderà al suolo in un modo, se dico “appoggiarsi alla gravità” scenderà in un altro, se dico “abbandonarsi alla gravità” la risposta sarà ancora diversa.
Ecco come lavorando su alcune parole chiave nella danza (gravità, caduta, verticale) si può via via ampliare il proprio “vocabolario gestuale” aprendo a nuove possibilità di movimento e di dinamica spaziale che partono però da un’immagine, da una suggestione-evocazione, e non da un compito fisico impartito.
Non è mai solleva una braccio, è sempre un “immagina che…”.
Chi danza non deve tanto essere condotto ad un esercizio fisico o mimetico, quanto ad un’esperienza esplorativa sul proprio sé corporeo il quale contiene, inevitabilmente, mondi immaginativi e quindi mondi di parola.
Selezionare e amministrare bene le parole durante una lezione quindi incide profondamente sulla qualità e sull’intenzione del gesto: un termine generico è probabile inviti ad un’azione generica, un’immagine puntuale, che magari utilizza una metafora o qualche altra figura retorica, potrà emanare una qualità evocativa tale da attivare una risposta gestuale autentica e originale.
Come nella dimensione poetica allora, con parole precise, con gesti precisi, potremmo creare universi di senso (inteso sia come percezione che come significato) estremamente ricchi e stratificati. Vere e proprie topografie dell’anima. È questo quello che intendo quando parlo di quel viaggio meraviglioso che dalla parola porta al corpo e dal corpo riporta alla parola.
La parola ha un senso, ma è anche un senso?
A pensarci bene le due istanze – corpo e parola – non sono poi così dissimili tra loro: come suggerisce l’etimo stesso, poesia (poiein), è prima di tutto un’azione, un fare, un creare.
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